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DISTORSIONI (Pensieri di uno sciatore principiante)
Di Francisk (del 19/02/2010 @ 15:04:36, in Papagnol & Friends, linkato 2887 volte)

 

Mi siedo a fatica accompagnato da forti dolori alle ginocchia.

Sul foglio che mi hanno rilasciato all’accettazione, il tempo di attesa indicato è di circa due ore.

Non mi spaventano le due ore ma quel circa. Avessi almeno qualcosa da leggere…

La sala d’attesa è piena, ma tranne una signora che si regge l’avambraccio destro ed ha il viso contratto per il dolore, le altre persone non mi sembrano particolarmente sofferenti.

Volevo evitare il pronto soccorso, ma visto che il mio medico di base si è dato alla latitanza, a quanto pare in compagnia di molti colleghi, non ho avuto altra scelta.

Tiro un bel sospiro e cerco di rilassarmi.

Il cellulare vibra.

Bustina sul display.

Leggo – Un uomo di mare come te con gli sci… mah… Scherzi a parte, mi dispiace, riprenditi presto. Stefano  

Altra vibrazione.

Altra bustina.

Leggo – Oè, omo de mare ! Azzo vai in montagna se te si mia bù… J. Mauro & C.

Sorrido all’idea che al mio rientro a lavoro mi toccherà una buona dose di prese per il culo.

Altra bustina e sono 3
Leggo - Accidenti ! Speriamo nulla di grave. riguardati. Ciao Marco

Certo, se a 37 anni ci si mette in testa di imparare a sciare e fino a qualche anno prima la massima pendenza vista è la coppa d’Andria, l’incidente bisogna metterlo in preventivo. Comunque il motivo di questa botta di temerarietà c’è, ha 9 anni ed è alto un metro e trentacinque centimetri.  Condividere un interesse con mio figlio non ha prezzo, si possono rischiare menischi, legamenti e poi, per tutto il resto, c’è il pronto soccorso.

Già che devo rispondere agli SMS, almeno ho qualcosa da fare.

Mentre digito sulla tastiera del cellulare, si apre la porta scorrevole e chiamano il mio numero.

Ma come?

E le due ore d’attesa?

E il circa ?

Felice per questa sorpresa mi alzo di scatto dimenticando il problemino alle ginocchia.

Dooooloooore !!!

L’infermiere sarà alto un metro e sessanta al massimo, sorride ed ha una bella faccia abbronzata. Mi accompagna in una stanza e mi chiede di aspettare l’ortopedico.

Rimango solo e non posso far altro che leggere le etichette dei vari cassetti e compiacermi dell’ordine e della pulizia che regnano sovrani.

Dopo circa dieci minuti arriva un bel pezzo di ortopedica il che, di certo, non guasta.

Sbrigativa mi chiede dell’incidente, di indicarle i punti dove sento dolore e di tirarmi giù i pantaloni. Obbedisco, lei preme sull’interno delle mie ginocchia facendomi sobbalzare, chiaramente per il dolore.

-         E’ il caso di fare una bella radiografia – dice – adesso l’infermiere l’accompagna in sala raggi.

Tiro su i pantaloni e arriva l’infermiere.

-         Luigi per cortesia accompagna il signore in sala raggi.

Luigi annuisce.

Sempre con il solito sorriso, l’infermiere mi chiede se riesco a seguirlo o se deve procurarsi una sedia a rotelle. Gli comunico che posso farcela, sempre che non si metta a correre. Ride.

Entrati in ascensore, Luigi legge dai fogli che ha in mano che sono nato a Barletta e il suo sorriso si allarga. Mi dice che lui e di Gallipoli e scopriamo di essere a Bergamo entrambi dal 1999. Quest’uomo mi è sempre più simpatico.

Mi fa accomodare, in attesa della radiografia. Tre persone sono in piedi nonostante due posti, uno alla destra e l’altro alla sinistra di un ragazzo di colore, siano liberi. Mi avvicino al ragazzo e lui cortesemente con la sua manona bicolore mi invita ad accomodarmi. Ha la scarpa slacciata, intuisco si tratti di un problema alla caviglia, sto per chiederglielo ma il ragazzo nel frattempo ha chiuso gli occhi, ha girato i palmi delle mani verso l’alto e, dal movimento delle labbra, sembra stia pregando. Ad interrompere questo momento mistico arriva il sorriso di Luigi.

- Forza Ayo siamo pronti per i raggi.

Quest’omino vestito di verde sta rapidamente scalando la mia personale classifica di gente simpatica.

Due delle tre persone in piedi si siedono. Pezzi di merda penso. Dopo una ventina di minuti il simpatico infermiere sostenendo il ragazzo di colore esce dalla sala raggi e mi dice che è arrivato il mio turno. Mi alzo di scatto lasciando il posto ad Ayo. Doooolooore !!!

-         Ayo siediti qui, aspettiamo le lastre – dice Luigi.

-         Certo che Ayo per uno che zoppica è un nome azzeccato – dico

Ridiamo in due, ma l’infermiere comincia a zoppicare ripetendo Ayo Ayo e allora anche il nostro amico di colore ci mostra i suoi denti bianchissimi.

All’interno della sala raggi una signorina mi chiede di togliere i pantaloni e di sdraiarmi.

Mi distendo e lei sapientemente mi mette in posizione, chiaramente per la radiografia.

Dopo dieci minuti sono fuori e Ayo e ancora lì, mi siedo accanto a lui non sorprendendomi del fatto che quel posto sia libero. Mi presento e gli chiedo se si è fatto male lavorando. Mi aspetto una risposta affermativa anche perché, sotto un giubbotto malconcio, intravedo una specie di tuta da lavoro. Lui mi fa un sorriso triste, rivolge la sua faccia verso la mia e mi accorgo che è piena di graffi.

In un italiano molto stentato mi racconta di essere stato aggredito durante la notte da tre ragazzi marocchini.

Mi spiega che sta cercando lavoro e che di notte va al dormitorio della Caritas. Ieri sera si era lamentato con i volontari del dormitorio perché un ragazzo marocchino lo infastidiva con la musica non lasciandolo dormire. Il casinsta, ripreso dai volontari, lo aveva minacciato e la cosa sembrava finita lì. In piena notte in tre lo avevano malmenato e mentre due lo tenevano fermo, il terzo gli aveva ruotato la caviglia oltre il limite consentito dall’articolazione.

E si caro mio mi dico, mentre tu dormi nel tuo comodo lettone, non riconoscendo la tua grande fortuna, la vita, vigliacca, si accanisce contro chi sta già vacillando.

-         Io sono qui per lavorare – mi dice quasi giustificandosi.

-         Devo mandare i soldi in Africa per mia moglie, mia suocera malata e per i miei due bambini. Devo andare a Milano – mi mostra il biglietto – ma ora come faccio?

Ascolto le sue parole perdendomi nei suoi occhi neri velati di grande tristezza. Vorrei dirgli tante cose, ma riesco solo a stringergli la mano e, mentre Luigi mi chiede nuovamente di seguirlo, a fargli un in bocca al lupo. Lui mi saluta portandosi la mano sul cuore.

L’infermiere salentino mi spiega che non c’è nulla di rotto, bastano una decina di giorni di riposo e tornerò come nuovo. E già, mentre io potrò stare a casa tranquillo e coccolato usufruendo dell’indennità di malattia, Ayo non potrà lavorare per chissà quanto tempo e nessuno si occuperà di lui. Mentre sono preso da questi pensieri, Luigi mi dice:

        Non sei contento di non esserti spaccato nulla?

Non faccio in tempo a rispondergli.

        So a cosa ti passa per la testa, la storia di Ayo è davvero triste, pensa che ‘sti cazzo di leghisti vorrebbero che denunciassimo questa gente. Questo accade quando si etichetta la persona che ti sta difronte e si perde di vista l’uomo, i suoi occhi, le sue mani, il suo cuore.

Gli stringo la mano con una presa decisa che sottolinea il profondo apprezzamento per le sue parole, mentre ormai Luigi entra di diritto nel mio personale elenco di uomini con la U maiuscola.

Ci lasciamo con un sorriso.

Rimango per 20 minuti fuori dal pronto soccorso sperando invano di rivedere Ayo.

Mentre guido verso casa, ogni cambio di marcia mi provoca dolore, ma sono troppo occupato a pensare di essere un pezzo di merda come quelle persone che hanno preferito rimanere in piedi, anziché occupare un posto accanto ad un extracomunitario. Avrei potuto fare di più per Ayo, avrei potuto chiedergli il numero di cellulare, cercargli un lavoro tramite amici e conoscenti, dargli semplicemente del denaro. Non ho fatto nulla e ora sono qui nel mio letto e non riesco a togliermi dalla mente i suoi occhi, prego Dio, non importa se il mio o il suo, e mi vengono in mente le parole di Smisurata Preghiera

“non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere”.

   

P.S. questo non è un racconto inventato ma l’esatta descrizione di quanto mi è successo mercoledì 17 febbraio 2010

  

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